E’ ora di farsi sentire.
E siccome abbiamo davanti dei padroni chiusi a riccio nella difesa dei propri profitti in crisi, e un governo totalmente sordo a qualsiasi problema sociale, è ora di farsi sentire ad alto volume. Con l’avvio della crisi l’Italia è cambiata. In peggio. Il quadro in cui ci eravamo abituati a vivere è decisamente mutato.
Un esempio: persino quella vergogna che chiamavamo «consociativismo» tra imprese e sindacati, tra partiti di governo e di opposizione, tra diavoli veri e acque sante finte è stato cancellato.
Ai sindacati, oggi, non viene più offerta nemmeno la «concertazione». Da loro si pretende, e si ottiene, la complicità. Cisl e Uil, insieme a Ugl e cento sigle corporative, l’hanno già garantita; era nel loro dna. La Cgil è invece spaccata verticalmente tra chi vorrebbe fare altrettanto e chi, come i metalmeccanici, mostra volontà e capacità di resistenza. Le centinaia di scioperi spontanei seguiti alla firma del contratto separato fanno vedere a tutti che i lavoratori non sono pecore da portare al macello; che una reazione adeguata è possibile.
In ogni caso, però, la difesa di condizioni di vita e di reddito decenti da tempo non più garantite è oggi esclusivamente in mano nostra. Trenta anni di sindacalismo di base dimostrano che si può fare. Un patrimonio immenso di strutture, esperienze, militanti, che copre l’intero territorio nazionale.
Ma l’attacco al lavoro oggi è a tutto campo. Non si può pensare di resistere a questa offensiva e rovesciare la tendenza se ognuno si muove da solo, come organizzazione, categoria, posto di lavoro.
E’ il momento di mettere in comune noi stessi , di generalizzare e unificare stabilmente le lotte. Siano esse di fabbrica, di ufficio, per la casa o per il reddito. Ognuno di noi è una persona che nel corso della giornata sembra vestire «abiti» sociali differenti. Siamo lavoratori, utenti, telespettatori, automobilisti, consumatori. Ma anche disoccupati, precari, intermittenti, con casa o in cerca di una casa. Siamo «bianchi» quando c’è da rivendicare un posto più alto in graduatoria o un diritto riservato a pochi; siamo «neri» quando dobbiamo contrattare una retribuzione davanti a un padrone.
Paghiamo il mutuo o l’affitto, e in entrambi i casi lasciamo a qualcun altro una fetta mostruosa del nostro reddito. Un reddito che ormai non basta a chi pure un lavoro (o una pensione) ancora ce l’ha; e che sembra un miraggio ormai a chi l’ha perso o non lo ha mai trovato.
Vorrebbero dividerci tra «garantiti» e «non», «stabili» e «precari», tra nonni, padri, madri e figli. Come se ognuno di noi non facesse ogni giorno i conti con un genitore o con un figlio, per cercare di condividere quel che serve per vivere. O semplicemente per sopravvivere. Come se ognuno di noi non sapesse quanta fatica costa l’incrociare reddito e bisogni, il possibile e l’indispensabile. Nell’ultimo anno quasi un milione di noi ha perso il lavoro, precario o stabile che fosse. E un altro milione attraversa periodi sempre più lunghi di cassa integrazione; ovvero l’anticamera del licenziamento, visto che la «ripresa» proprio non si vede, neppure all’orizzonte.
Questo governo non ha fatto nulla per ridurre o attenuare questo problema. Anzi, lo ha aggravato licenziando 57.000 lavoratori della scuola, con altri 73.000 in uscita nei prossimi due anni. Quel che sta avvenendo è chiaro: imprese, banche e governo stanno scaricando su di noi il costo della crisi. E noi non possiamo accettarlo.
Ci hanno già tolto quasi tutto, non possiamo arretrare ancora. Abbiamo bisogno di lavoro; e, se non c’è, di reddito. Ogni essere umano ha diritto a vivere; come gli altri e insieme agli altri. Per questo siamo scesi oggi in piazza, occupati e non, dipendenti pubblici e «privati», uomini e donne, nativi e migranti, «a tempo indeterminato» e precari, giovani e «anziani».
Perché abbiamo capito che ora siamo precari tutti, sul lavoro e nella vita. E che l’unica «stabilità» è privilegio dei padroni più cattivi degli altri.
Per questo ci mettiamo insieme senza voler più tollerare distinzioni ossia divisioni tra i diversi modi di «stare sotto».
Non siamo impazienti, sappiamo che ci vorrà tempo e saggezza per riannodare i fili di una socialità consapevole di cui si è persa memoria.
Ma siamo come sempre intransigenti: sta con noi solo chi lotta, chi non pietisce, chi non cerca una raccomandazione o, strumentalmente, un voto elettorale.
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