Riceviamo
e pubblichiamo un contributo del collettivo foggiano Jacob sul Ghetto
di Rignano Garganico, tema affrontato la settimana scorsa in un precedente articolo.
Un contributo che ha il merito di problematizzare il ruolo di
interventi pubblici come quello promosso dalla Regione Puglia che,
seppur animati dalle ragioni strumentali ben descritte dal precedente
articolo (in primis ripulire l’immagine di una regione che in questi
anni ha puntato a confezionarsi un volto progressista, ‘tollerante’ e
sostenibile meno per salvaguardare le esportazioni che per incrementare
il turismo internazionale e colto), non vanno incasellati in forme di
rifiuto ideologico o di principio. Constatare la strumentalità con cui
tali interventi sottostimano il problema delle condizioni lavorative
(dunque delle forme di estrazione a monte) a vantaggio esclusivo di un
approccio umanitario “a valle” non deve indurre a sminuire a nostra
volta il ruolo disciplinante e il potere di frammentazione che hanno
condizioni di vita e lavoro schiavistiche e subumane, la violenza di
forme di controllo capillari ed etnicizzate (il caporalato), le forme di
gerarchia interne e funzionali che proliferano nei ghetti delle nostre
campagne. Ciò non toglie che mettere a tema gli interessi economici, le
forme di estrazione di profitto e di rinnovato sfruttamento incardinate
negli interventi emergenziali ed umanitari non è una posa
intellettualistica, quanto un metodo di lettura e posizionamento: quello
che ci rende capaci di individuare la divergenza dei nostri fini da
quelli del riformismo del capitale. E se conflittualità e organizzazione
non sono un indice determinato dal grado di sottosviluppo e
disperazione, altrettanto a distanza vorremmo tenerci dal determinismo
inverso: quello di dare frazioni di proletariato per perse sulla base
della loro collocazione di classe.
Il
Ghetto di Rignano. Basta nominarlo. E stormi di pensieri “sinistri” si
librano nell’estiva aria tersa di un Mezzogiorno immaginato, tra luci
acute che sanno di Africa e sentori muschiati di fatica e dignità.
L’evocazione del conflitto, il riscatto dei dannati della Terra. Dei
dannati tra i dannati. I compagni idealisti, le suore laiche, gli
analisti d’ogni dove, fanno la fila – tra fine maggio e i primi di
settembre – per visitare il Ghetto. Per filmarlo in presuntuosi docufilm
dalle colonne sonore strazianti, per estrapolarne la teoria in scritti
degni del Codice di Hammurabi. Noi siamo di Foggia. La nostra città
dista una ventina di chilometri dal Ghetto suddetto. E l’estate, per i
compagni, è la stagione del contatto. Come se noialtri non esistessimo
nei mesi senza caldo. E senza immigrati. Un compagno intellettuale, uno
“in vista”, in un pomeriggio assolato ci chiese di accompagnarlo in una
ricognizione tra le campagne dello sfruttamento. Le uniche in Italia,
sembrerebbe. Gatti si era già fatto passare per un bracciante e aveva
smosso l’interesse della compagneria organizzata. Anche quello
dell’ambasciata polacca, se è per questo. Si favoleggiava, in un misto
d’orrore e morboso languore, di oltre cento polacchi “spariti” in
Capitanata. Il che equivaleva a dire: uccisi brutalmente e sommariamente
sepolti nel contado da caporali senza scrupoli. Così, l’armata della
salvezza calava sul Tavoliere. Che non si capiva bene come avrebbero
potuto – fossero state vere le voci – affrontare con il solo scudo delle
loro analisi, un caporalato tanto feroce. Ma tant’è. Il compagno
intellettuale fu portato a zonzo. Nei suoi occhi brillava l’estasi. La
stessa che può impossessarsi di un giornalista di guerra traghettato
nella terra di nessuno. Ci fermammo in una casupola di mattoni. Un
rudere nel quale era stato ricavato un bar. Lo gestiva una donna
nigeriana. Il compagno intellettuale, in brodo di giuggiole, prese a
fare domande. La donna rispondeva. Toni bruschi ed asciutti. Suo marito e
i suoi figli erano giù, in Africa, gli disse. Lei lavorava per loro.
Completamente invaghito, l’analista di sinistra prendeva appunti. E si
riempiva gli occhi di quello spettacolo. Ogni tanto ci scoccava uno
sguardo talmente innamorato da non rendersi conto di quanto il nostro
non condividesse affatto quell’afflato. Un tizio dell’Est, visibilmente
ubriaco, fece rotolare una bottiglia a terra e si produsse in una
rumorosa imprecazione. La donna nigeriana, dal suo bancone, lasciò
perdere le chiacchiere e alzò il tono della voce. Una reprimenda. L’uomo
rimproverato si zittì di botto e porse le sue scuse. La donna
ricominciò a parlare
con l’intellettuale. Che, dopo quello che
aveva visto, era più rapito che affascinato. Solo a sera, dinanzi ad un
pezzo di focaccia, a casa, dopo aver ascoltato una vagonata di idiozie
sul coraggio delle donne, sul sacrificio degli ultimi, sulla dignità,
sull’autorevolezza che deriva dal ruolo di guida, sul fatto che
bisognasse ripartire da quei bisogni, rivelammo al compagno quel che
anche un ragazzino avrebbe capito. Se non avesse avuto gli occhi occlusi
dalla filantropia compagnesca di ultima generazione. Quel che a noi era
parso evidente sin dai saluti. Che quella donna era il caporale. Lui
provò a mettere in fila i grani del rosario. Poi rifiutò con forza la
nostra argomentazione. E, una volta tornato nel profondo Nord, fu libero
di scrivere di coraggio, dignità e bisogni. Inventandosi una speranza
inesistente da una storia travisata. Incoscienza, innocenza. Ma anche
presunzione, arroganza. Oltre che confusione. A monte, andrebbe
ripristinato un dualismo elementare. Saldare il senso delle cose alla
natura stessa del nostro antagonismo di classe, immerso in un contesto
che, piaccia o non piaccia, andrebbe conosciuto. Il Tavoliere delle
Puglie, tanto nel versante settentrionale (San Severo), quanto in quello
meridionale (Cerignola), è stato da sempre laboratorio. Dello
sfruttamento padronale applicato all’ambito rurale e, di converso,
dell’organizzazione rivendicativa bracciantile. Il primo sciopero
“organizzato” risale al 1905. I lavoratori, prima ancora di affrontare
la controparte e dipanare la propria forza, furono costretti a formare
picchetti e presidi contro i cosiddetti “forestieri”, gente che, spinta
dalla fame e dalla disperazione, saliva dal Nord barese e dalle zone
limitrofe per sopperire alla momentanea assenza di manodopera nei
latifondi. Vi ricorda niente? I braccianti di Cerignola vedevano nel
“forestiero” quel che in fondo era: un crumiro. E lo combattevano con
ogni mezzo. Gli analisti dalla pancia piena possono ghignare disprezzo
per tanta superficialità, ma la realtà era quella. Lo stesso Di
Vittorio, che si accollò sul campo l’onere di diffondere pedagogia
rivoluzionaria tra le plebi, non poté fare a meno di individuare come
“molto serio” il conflitto tra scioperanti e crumiri “forestieri”.
Questi ultimi giungevano a migliaia e nei momenti più “fertili” per le
rivendicazioni degli stanziali, quando cioè questi potevano imporre una
maggiorazione ai propri miserabili salari. I “forestieri” accettavano
paghe più basse e venivano assunti, scatenando la reazione violenta
degli altri braccianti. Duelli, zuffe, morti e feriti. Come a
Colapatella nel 1914. I “forestieri” erano, senza dubbio alcuno, vittime
dello stesso sistema criminale. Ma, altresì, oggettivamente un ostacolo
alla lotta dei più determinati. Di Vittorio incentrò il suo delicato,
complicatissimo lavoro sindacale e politico, sulle forme organizzative
degli “stranieri”. Perché la causa della mortale frizione era proprio da
individuarsi in questo aspetto: la disorganizzazione degli occasionali,
mossi come pedine. La ruota gira, il mondo cambia, ma certe cose,
quando ritornano, si farebbe bene a guardarle in faccia. Dov’è
l’organizzazione sindacale itinerante, nomade, capace di organizzare in
loco frotte di lavoratori stagionali provenienti dall’Africa, dall’Asia,
dall’Europa dell’Est, disposte a mandare a monte l’intero sistema
retributivo nel nome di un “quanto più possibile, il prima possibile”
che non lascia scampo alle acute osservazioni dei dotti? Dov’è la forza
politica antagonista capace di diffondere capillarmente la disciplina
del lavoratore salariato a gente che attraversa la penisola italiana
seguendo il ritmo delle stagioni e dei raccolti e quindi, per ruolo,
indifferente alle filippiche dei maestri del conflitto di carta? Ad
entrambe le domande, non possiamo che rispondere con una desolata
scrollata di spalle. No, non ci sono forze di quel tipo. E per quanto si
voglia slittare semanticamente dal nucleo dell’organizzazione sociale a
quello della filosofia culturale, il problema che permane è lo stesso
del 1905: gli immigrati sono dei crumiri. Immaginiamo le facce! Orrore,
svenimenti, gente sconvolta pronta, ad andar bene, a ricapitolarci da
casa le forme della ristrutturazione capitalista delle campagne. Ma il
problema non cambia, neppure spiegandone premesse e ripercussioni. La
guerra fra poveri, unica allettante prospettiva delle destre xenofobe,
fa leva su dati di fatto, ahinoi incontrovertibili. E la mancanza è
nostra. Nostra e del nostro cristianesimo di ritorno, del nostro vuoto
di prospettive, della nostra mancanza di punti di riferimento vincenti.
L’organizzazione delle disperse, frazionate, ricattabili plebi
immigrate, non è freccia al nostro arco. Inutile girarci attorno. Ed in
più, da almeno quindici anni, dal riflusso delle istanze collettive e di
classe (quanto siamo vetero!) a supplire a questa mancanza, abbiamo
destinato
un inutilissimo arsenale dialettico pronto ad incidere (poco) sulla
sovrastruttura. Siamo diventati gli alfieri della differenza, della
diversità elevata a valore, della comprensione a tutti i costi, laddove
un tempo tendevamo all’integrazione nella lotta, all’unificazione di una
massa di manovra e all’intolleranza verso atteggiamenti filo-padronali.
Così snaturati, non ci rendiamo conto che il nostro ruolo nei “ghetti”
non va oltre quello dei filantropi, quando non degli esploratori dinanzi
ai “selvaggi” dell’Oceania. Con l’aggravante che contiamo assai meno
dei preti. Nel ghetto ci sono case di lamiere e tavole di legno
recuperate alla meglio. D’estate sono delle fornaci, tanto che gli
ospiti dormono all’aperto. D’inverno, dei frigoriferi. E qualcuno c’è
morto, negli anni, di freddo. Nel ghetto comanda il caponero. Lui è vita
per i migranti del ghetto, tutti centroafricani, in larga parte
irregolari. O meglio: in larga parte ex regolari, spesso con un lavoro
nelle fabbriche del Nord, poi in cassa, poi senza alcuna tutela, finiti
nella tenaglia assurda della Bossi-Fini. Il caponero organizza le
squadre (rigorosamente per etnia, ogni etnia o nazionalità un caponero).
Lui è il tramite tra l’agrario senza scrupoli e la forza lavoro. Lui
assicura reddito. Ma è nello stesso tempo il vampiro che succhia gran
parte dei soldi che finiscono ai braccianti, pagati a cottimo, 3 euro
per cassone di pomodoro. Un centesimo a chilo di pomodoro raccolto.
Lucra. Dalla ricarica del telefonino (da 50 centesimi a 1 euro) al
panino più acqua per le 12 ore di lavoro, fino al trasporto nei campi.
Poi c’è da pagare il “fitto” (sì, il fitto del terreno al proprietario
del suolo), poi c’è il bar (fiorente attività messa su da un
sanseverese). E poi c’è il giro di prostituzione, di spaccio di cocaina.
I cessi a cielo aperto, niente acqua calda, 1 milione speso ogni anno
dalla Regione per portare acqua potabile in cisterne e piazzare bagni
chimici. Tutto questo i “compagni” sembrano conoscerlo. Descrivono bene
anche le dinamiche di sfruttamento, che sale lungo tutta la filiera e
ingrassa mediatori e grande distribuzione commerciale. Ma se la Regione –
alla quale non dobbiamo nulla, sia chiaro – decide di smantellare il
ghetto e allestire delle tendopoli, alzano le barricate del principio.
Eppure: cosa cambierebbe con le tendopoli? Nulla. Chi è irregolare dovrà
sempre rivolgersi al caponero per un lavoro. Chi è regolare potrà
sperare in un ingaggio come da norma, tramite le liste di prenotazione e
i contributi che vanno alle imprese che rispettano i contatti. Resta la
Bossi-Fini, restano le dinamiche di frammentazione sociale, resta il
lavoro agricolo salariato, povero per sua natura, precario e stagionale,
modello al quale si sono ispirate tutte le riforme involutive della
legislazione del lavoro dagli anni Ottanta in poi. Cambia che questi
lavoratori recuperano un minimo di dignità. Un campo con assistenza
sanitaria e legale continua, con bagni e mense. Con il trasporto
garantito verso i campi di lavoro. Nessuno afferma che sia la panacea di
tutti i mali, che hanno origini e nature diverse. Ma allora lo
dicessero fino in fondo: “noi vogliamo che i migranti vivano nella
merda, che vengano a noi come selvaggi in gabbia, in maniera tale da
farci agitare la bandiera della lotta al sistema delle multinazionali”. E
poi, in fondo, ci sarà sfuggito, ma non capiamo quale sia la proposta
di questi compagni. Temiamo la risposta: “la rivoluzione”. E fintanto
che ci attrezziamo, lasciamo i migranti a vivere sotto lamiere nelle
estati a 50 gradi della campagna foggiana? Decidiamo per loro, per il
solo gusto di inseguire le nostre battaglie da dotti, alla faccia del
referente strumentale? Fortuna che, nei ghetti come altrove, non
contiamo niente.
Laboratorio politico Jacob - Foggia