domenica 20 luglio 2014

La vergognosa sentenza Antonini

Comunicato stampa

La sentenza della Corte di Appello di Firenze che ha  confermato il licenziamento di Riccardo Antonini è semplicemente vergognosa. È un segnale inquietante quello che viene lanciato a tutti  i lavoratori, e in particolare a chi è impegnato nella tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro: chi “osa” lottare e far valere i propri diritti, può essere fatto fuori. Tragicamente la sentenza è avvenuta lo stesso giorno che nei pressi di Gela 3 operai di Rfi morivano sui binari durante lavori di manutenzione. Insomma ancora una volta la legge si schiera dalla parte dei poteri forti e a farne le spese sono sempre i lavoratori che non piegano la testa. Questa decisione infine è l’ennesimo schiaffo delle istituzioni alla città di Viareggio e soprattutto ai familiari delle 32 vittime della strage ferroviaria che da più di 5 anni lottano per la verità, la giustizia e la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Confederazione Cobas Pisa e Versilia

Empoli – In 150 manifestano in solidarietà col popolo palestinese e per fermare il massacro a Gaza

Empoli -#StopBombingGaza (18)Oggi pomeriggio si è svolta ad Empoli un’iniziativa di solidarietà col popolo palestinese e per fermare i bombardamenti a Gaza.
Hanno partecipato gli attivisti e le attiviste della Comunità in Resistenza/Csa Intifada
e cittadini migranti della comunità araba.Circa 150 persone che in corteo hanno attraversato le vie del centro della città.
Centro Sociale Intifada-Comunità in Resistenza
COBAS EMPOLI-VALDELSA


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giovedì 17 luglio 2014

venerdì 18 luglio ore 18 piazza della Vittoria, Empoli: FERMIAMO L' AGGRESSIONE ISRAELIANA STOP AL GENOCIDIO A GAZA

FERMIAMO L' AGGRESSIONE ISRAELIANA

STOP AL GENOCIDIO A GAZA

Continua il feroce attacco da parte delle forze militari israeliane  nei confronti del popolo palestinese e, ora dopo ora, non si ferma
l'escalation dei morti e dei feriti. Non si può parlare di guerra, ma quello che avviene in questi giorni è una vera e propria aggressione,
un' infame aggressione, quando ad attaccare è uno dei più potenti eserciti del mondo contro una popolazione inerme, quando il saldo
delle vittime è di oltre 200 palestinesi uccisi come rappresaglia per 3 israeliani assassinati.

"Protective edge" è la nuova operazione criminale scatenata da Israele a seguito del rapimento di tre coloni, centinaia i bombardamenti sulla striscia. La punizione è collettiva, disumana e illegale, la popolazione intrappolata nella propria terra senza un posto dove rifugiarsi se non sotto le macerie delle proprie case. Come sempre Israele, anche in questa occasione, agisce con il favore degli USA e il silenzio della Comunità Europea. I media capovolgono i fatti e dipingono i palestinesi come pericolosi terroristi.

Diciamo basta al bombardamento su Gaza, chiediamo una informazione corretta. Scendiamo in piazza per chiedere un cessate il fuoco immediato. Israele si sta macchiando ancora una volta di crimini di guerra e dobbiamo fermare il genocidio in corso nella più affollata prigione a cielo aperto del mondo.

Appuntamento per venerdì 18 luglio alle 18 in piazza della Vittoria ad Empoli per il presidio in solidarietà con il popolo palestinese.

 RESTIAMO UMANI

FREE PALESTINE STOP OCCUPATION

giovedì 10 luglio 2014

Sostieni il csa Intifada


Dopo il furto della notte del 3 di luglio, il Centro Sociale Intifada ha una necessità e un'urgenza: ricomprare l'impianto audio. Tra le differenti cose che sono state rubate, la maggior parte erano apparecchiature audio con le quali si realizzano gli eventi culturali e musicali presso il centro sociale e le proiezioni cinematografiche estive nel quartiere di Ponte a Elsa.

Per questi motivi sentiamo oggi la necessità di fare appello a tutte e tutti coloro che si sentono vicini, complici e solidali con la nostra esperienza venticinquennale di socialità e di lotte, di sostenere economicamente l'Intifada, così da permetterci di ricomprare al più presto le strumentazioni tecniche necessarie per i concerti e le iniziative.

-Come prima iniziativa, invitiamo a partecipare ad una cena sociale all'Intifada, venerdì 25 luglio, dalle ore 21, al prezzo di 15 euro (prenota entro il 23 luglio al 3460064288).

-Un altro modo per inviare il proprio sostegno è con un versamento al CCP N°15926504 da intestare ad Ass. culturale ora basta, con causale “campagna per ricomprare impianto audio”.

Il Centro Sociale Intifada è uno spazio di socialità e di alternativa che non si regge su contributi pubblici né di privati, ma esiste e funziona grazie alla cooperazione di tanti e tante che lo rendono uno spazio vivo per la città e grazie a tutti colo che danno il loro contributo partecipando alle attività e alle iniziative che vi si realizzano. Per questo è importante in questo momento il sostegno di tutti e tutte.

Ringraziamo in anticipo gli amici, amiche, compagni e compagne che parteciperanno a questa campagna di raccolta fondi.

Centro Sociale Intifada-Comunità in Resistenza

martedì 8 luglio 2014

Cassazione: rappresentatività sindacale – convocazione dell’assemblea in azienda da parte delle Rsu

Con sentenza n. 15437 del 7 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha affermato che anche un singolo componente della rappresentanza sindacale unitaria ha la facoltà d’indire l’assemblea in azienda, qualora non ci sia l’unanimità nell’organismo.
I giudici della Suprema Corte hanno precisato che tale diritto non è una prerogativa esclusiva della Rsu intesa collegialmente (vedasi artt. 4 e 5 dell’accordo interconfederale del 1993, istitutivo delle Rsu).

lunedì 7 luglio 2014

Infarto da superlavoro, sentenza Cassazione

Corte di Cassazione - Sezione Lavoro - sentenza n. 9945/2014
Infarto da superlavoro
Lavorava senza tregua, portandosi anche il lavoro a casa, pur di raggiungere gli obiettivi che il suo datore, una grossa societa' di telecomunicazioni, gli aveva assegnato. Ma un carico di undici ore di lavoro al giorno alla fine lo ha portato all'infarto. Ora la Cassazione ha stabilito che una morte del genere deve essere risarcita dal datore che non può ignorare «le modalita' attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro».

sabato 5 luglio 2014

Furto al CSA Intifada, rubato l’impianto di amplificazione ed altre apparecchiature

furto ampli (1)Nei prossimi giorni lanceremo una campagna di finanziamento per ricomprare gli oggetti rubati
La scorsa notte abbiamo subito un furto al Centro Sociale Intifada. 
Dopo aver spaccato una finestra e poi segato un lucchetto all’interno, qualcuno ha sottratto oggetti ed attrezzature varie, soprattutto componenti dell’impianto di amplificazione audio, lasciando i locali danneggiati e con cose sparse ovunque. Ancora stiamo conteggiando i danni e gli oggetti che mancano, ma per adesso abbiamo stimato il valore delle apparecchiature audio rubate intorno ad alcune migliaia di euro.
Non abbiamo idea di chi sia stato a commettere questo atto infame contro il nostro spazio sociale: se sia stata un’intimidazione –osservando i danni ai locali e al furto di qualsiasi strumento di amplificazione audio, dalle casse al megafono– oppure un normale furto di apparecchiature tecniche da rivendere. Quel che è certo è che questo furto ci ha procurato un danno importante, prima di tutto economico, e poi perché in questo momento ci impedisce materialmente di realizzare le nostre differenti attività culturali e musicali.
Nello specifico, informiamo che non garantiamo la realizzazione della proiezione cinematografica odierna della rassegna Elsa Cinema che si svolge presso le scuole elementari di Ponte a Elsa, mentre ci impegniamo a ripristinare regolarmente le proiezioni a partire dalla prossima settimana.
Detto tutto questo, non sarà certo un atto del genere –aldilà di quale sia la sua reale motivazione– a mettere in difficoltà le attività dei differenti gruppi e collettivi che partecipano nei locali del Centro Sociale. Innanzitutto diventa urgente raccogliere dei fondi economici che permettano di ricomprare al più presto le attrezzature audio, così da non rendere difficoltosa la realizzazione delle prossime iniziative.
Nei giorni seguenti lanceremo una campagna di sostegno economico al CSA Intifada e renderemo note alcune iniziative che servano a riparare al più presto i danni provocati dal furto.
Comunità in Resistenza-CSA Intifada

Il Ghetto di Rignano Garganico e la regione progressista


mini-IMG_2810Riceviamo e pubblichiamo un contributo del collettivo foggiano Jacob sul Ghetto di Rignano Garganico, tema affrontato la settimana scorsa in un precedente articolo. Un contributo che ha il merito di problematizzare il ruolo di interventi pubblici come quello promosso dalla Regione Puglia che, seppur animati dalle ragioni strumentali ben descritte dal precedente articolo (in primis ripulire l’immagine di una regione che in questi anni ha puntato a confezionarsi un volto progressista, ‘tollerante’ e sostenibile meno per salvaguardare le esportazioni che per incrementare il turismo internazionale e colto), non vanno incasellati in forme di rifiuto ideologico o di principio. Constatare la strumentalità con cui tali interventi sottostimano il problema delle condizioni lavorative (dunque delle forme di estrazione a monte) a vantaggio esclusivo di un approccio umanitario “a valle” non deve indurre a sminuire a nostra volta il ruolo disciplinante e il potere di frammentazione che hanno condizioni di vita e lavoro schiavistiche e subumane, la violenza di forme di controllo capillari ed etnicizzate (il caporalato), le forme di gerarchia interne e funzionali che proliferano nei ghetti delle nostre campagne. Ciò non toglie che mettere a tema gli interessi economici, le forme di estrazione di profitto e di rinnovato sfruttamento incardinate negli interventi emergenziali ed umanitari non è una posa intellettualistica, quanto un metodo di lettura e posizionamento: quello che ci rende capaci di individuare la divergenza dei nostri fini da quelli del riformismo del capitale. E se conflittualità e organizzazione non sono un indice determinato dal grado di sottosviluppo e disperazione, altrettanto a distanza vorremmo tenerci dal determinismo inverso: quello di dare frazioni di proletariato per perse sulla base della loro collocazione di classe.

Il Ghetto di Rignano. Basta nominarlo. E stormi di pensieri “sinistri” si librano nell’estiva aria tersa di un Mezzogiorno immaginato, tra luci acute che sanno di Africa e sentori muschiati di fatica e dignità. L’evocazione del conflitto, il riscatto dei dannati della Terra. Dei dannati tra i dannati. I compagni idealisti, le suore laiche, gli analisti d’ogni dove, fanno la fila – tra fine maggio e i primi di settembre – per visitare il Ghetto. Per filmarlo in presuntuosi docufilm dalle colonne sonore strazianti, per estrapolarne la teoria in scritti degni del Codice di Hammurabi. Noi siamo di Foggia. La nostra città dista una ventina di chilometri dal Ghetto suddetto. E l’estate, per i compagni, è la stagione del contatto. Come se noialtri non esistessimo nei mesi senza caldo. E senza immigrati. Un compagno intellettuale, uno “in vista”, in un pomeriggio assolato ci chiese di accompagnarlo in una ricognizione tra le campagne dello sfruttamento. Le uniche in Italia, sembrerebbe. Gatti si era già fatto passare per un bracciante e aveva smosso l’interesse della compagneria organizzata. Anche quello dell’ambasciata polacca, se è per questo. Si favoleggiava, in un misto d’orrore e morboso languore, di oltre cento polacchi “spariti” in Capitanata. Il che equivaleva a dire: uccisi brutalmente e sommariamente sepolti nel contado da caporali senza scrupoli. Così, l’armata della salvezza calava sul Tavoliere. Che non si capiva bene come avrebbero potuto – fossero state vere le voci – affrontare con il solo scudo delle loro analisi, un caporalato tanto feroce. Ma tant’è. Il compagno intellettuale fu portato a zonzo. Nei suoi occhi brillava l’estasi. La stessa che può impossessarsi di un giornalista di guerra traghettato nella terra di nessuno. Ci fermammo in una casupola di mattoni. Un rudere nel quale era stato ricavato un bar. Lo gestiva una donna nigeriana. Il compagno intellettuale, in brodo di giuggiole, prese a fare domande. La donna rispondeva. Toni bruschi ed asciutti. Suo marito e i suoi figli erano giù, in Africa, gli disse. Lei lavorava per loro. Completamente invaghito, l’analista di sinistra prendeva appunti. E si riempiva gli occhi di quello spettacolo. Ogni tanto ci scoccava uno sguardo talmente innamorato da non rendersi conto di quanto il nostro non condividesse affatto quell’afflato. Un tizio dell’Est, visibilmente ubriaco, fece rotolare una bottiglia a terra e si produsse in una rumorosa imprecazione. La donna nigeriana, dal suo bancone, lasciò perdere le chiacchiere e alzò il tono della voce. Una reprimenda. L’uomo rimproverato si zittì di botto e porse le sue scuse. La donna ricominciò a parlare
con l’intellettuale. Che, dopo quello che aveva visto, era più rapito che affascinato. Solo a sera, dinanzi ad un pezzo di focaccia, a casa, dopo aver ascoltato una vagonata di idiozie sul coraggio delle donne, sul sacrificio degli ultimi, sulla dignità, sull’autorevolezza che deriva dal ruolo di guida, sul fatto che bisognasse ripartire da quei bisogni, rivelammo al compagno quel che anche un ragazzino avrebbe capito. Se non avesse avuto gli occhi occlusi dalla filantropia compagnesca di ultima generazione. Quel che a noi era parso evidente sin dai saluti. Che quella donna era il caporale. Lui provò a mettere in fila i grani del rosario. Poi rifiutò con forza la nostra argomentazione. E, una volta tornato nel profondo Nord, fu libero di scrivere di coraggio, dignità e bisogni. Inventandosi una speranza inesistente da una storia travisata. Incoscienza, innocenza. Ma anche presunzione, arroganza. Oltre che confusione. A monte, andrebbe ripristinato un dualismo elementare. Saldare il senso delle cose alla natura stessa del nostro antagonismo di classe, immerso in un contesto che, piaccia o non piaccia, andrebbe conosciuto. Il Tavoliere delle Puglie, tanto nel versante settentrionale (San Severo), quanto in quello meridionale (Cerignola), è stato da sempre laboratorio. Dello sfruttamento padronale applicato all’ambito rurale e, di converso, dell’organizzazione rivendicativa bracciantile. Il primo sciopero “organizzato” risale al 1905. I lavoratori, prima ancora di affrontare la controparte e dipanare la propria forza, furono costretti a formare picchetti e presidi contro i cosiddetti “forestieri”, gente che, spinta dalla fame e dalla disperazione, saliva dal Nord barese e dalle zone limitrofe per sopperire alla momentanea assenza di manodopera nei latifondi. Vi ricorda niente? I braccianti di Cerignola vedevano nel “forestiero” quel che in fondo era: un crumiro. E lo combattevano con ogni mezzo. Gli analisti dalla pancia piena possono ghignare disprezzo per tanta superficialità, ma la realtà era quella. Lo stesso Di Vittorio, che si accollò sul campo l’onere di diffondere pedagogia rivoluzionaria tra le plebi, non poté fare a meno di individuare come “molto serio” il conflitto tra scioperanti e crumiri “forestieri”. Questi ultimi giungevano a migliaia e nei momenti più “fertili” per le rivendicazioni degli stanziali, quando cioè questi potevano imporre una maggiorazione ai propri miserabili salari. I “forestieri” accettavano paghe più basse e venivano assunti, scatenando la reazione violenta degli altri braccianti. Duelli, zuffe, morti e feriti. Come a Colapatella nel 1914. I “forestieri” erano, senza dubbio alcuno, vittime dello stesso sistema criminale. Ma, altresì, oggettivamente un ostacolo alla lotta dei più determinati. Di Vittorio incentrò il suo delicato, complicatissimo lavoro sindacale e politico, sulle forme organizzative degli “stranieri”. Perché la causa della mortale frizione era proprio da individuarsi in questo aspetto: la disorganizzazione degli occasionali, mossi come pedine. La ruota gira, il mondo cambia, ma certe cose, quando ritornano, si farebbe bene a guardarle in faccia. Dov’è l’organizzazione sindacale itinerante, nomade, capace di organizzare in loco frotte di lavoratori stagionali provenienti dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’Est, disposte a mandare a monte l’intero sistema retributivo nel nome di un “quanto più possibile, il prima possibile” che non lascia scampo alle acute osservazioni dei dotti? Dov’è la forza politica antagonista capace di diffondere capillarmente la disciplina del lavoratore salariato a gente che attraversa la penisola italiana seguendo il ritmo delle stagioni e dei raccolti e quindi, per ruolo, indifferente alle filippiche dei maestri del conflitto di carta? Ad entrambe le domande, non possiamo che rispondere con una desolata scrollata di spalle. No, non ci sono forze di quel tipo. E per quanto si voglia slittare semanticamente dal nucleo dell’organizzazione sociale a quello della filosofia culturale, il problema che permane è lo stesso del 1905: gli immigrati sono dei crumiri. Immaginiamo le facce! Orrore, svenimenti, gente sconvolta pronta, ad andar bene, a ricapitolarci da casa le forme della ristrutturazione capitalista delle campagne. Ma il problema non cambia, neppure spiegandone premesse e ripercussioni. La guerra fra poveri, unica allettante prospettiva delle destre xenofobe, fa leva su dati di fatto, ahinoi incontrovertibili. E la mancanza è nostra. Nostra e del nostro cristianesimo di ritorno, del nostro vuoto di prospettive, della nostra mancanza di punti di riferimento vincenti. L’organizzazione delle disperse, frazionate, ricattabili plebi immigrate, non è freccia al nostro arco. Inutile girarci attorno. Ed in più, da almeno quindici anni, dal riflusso delle istanze collettive e di classe (quanto siamo vetero!) a supplire a questa mancanza, abbiamo
destinato un inutilissimo arsenale dialettico pronto ad incidere (poco) sulla sovrastruttura. Siamo diventati gli alfieri della differenza, della diversità elevata a valore, della comprensione a tutti i costi, laddove un tempo tendevamo all’integrazione nella lotta, all’unificazione di una massa di manovra e all’intolleranza verso atteggiamenti filo-padronali. Così snaturati, non ci rendiamo conto che il nostro ruolo nei “ghetti” non va oltre quello dei filantropi, quando non degli esploratori dinanzi ai “selvaggi” dell’Oceania. Con l’aggravante che contiamo assai meno dei preti. Nel ghetto ci sono case di lamiere e tavole di legno recuperate alla meglio. D’estate sono delle fornaci, tanto che gli ospiti dormono all’aperto. D’inverno, dei frigoriferi. E qualcuno c’è morto, negli anni, di freddo. Nel ghetto comanda il caponero. Lui è vita per i migranti del ghetto, tutti centroafricani, in larga parte irregolari. O meglio: in larga parte ex regolari, spesso con un lavoro nelle fabbriche del Nord, poi in cassa, poi senza alcuna tutela, finiti nella tenaglia assurda della Bossi-Fini. Il caponero organizza le squadre (rigorosamente per etnia, ogni etnia o nazionalità un caponero). Lui è il tramite tra l’agrario senza scrupoli e la forza lavoro. Lui assicura reddito. Ma è nello stesso tempo il vampiro che succhia gran parte dei soldi che finiscono ai braccianti, pagati a cottimo, 3 euro per cassone di pomodoro. Un centesimo a chilo di pomodoro raccolto. Lucra. Dalla ricarica del telefonino (da 50 centesimi a 1 euro) al panino più acqua per le 12 ore di lavoro, fino al trasporto nei campi. Poi c’è da pagare il “fitto” (sì, il fitto del terreno al proprietario del suolo), poi c’è il bar (fiorente attività messa su da un sanseverese). E poi c’è il giro di prostituzione, di spaccio di cocaina. I cessi a cielo aperto, niente acqua calda, 1 milione speso ogni anno dalla Regione per portare acqua potabile in cisterne e piazzare bagni chimici. Tutto questo i “compagni” sembrano conoscerlo. Descrivono bene anche le dinamiche di sfruttamento, che sale lungo tutta la filiera e ingrassa mediatori e grande distribuzione commerciale. Ma se la Regione – alla quale non dobbiamo nulla, sia chiaro – decide di smantellare il ghetto e allestire delle tendopoli, alzano le barricate del principio. Eppure: cosa cambierebbe con le tendopoli? Nulla. Chi è irregolare dovrà sempre rivolgersi al caponero per un lavoro. Chi è regolare potrà sperare in un ingaggio come da norma, tramite le liste di prenotazione e i contributi che vanno alle imprese che rispettano i contatti. Resta la Bossi-Fini, restano le dinamiche di frammentazione sociale, resta il lavoro agricolo salariato, povero per sua natura, precario e stagionale, modello al quale si sono ispirate tutte le riforme involutive della legislazione del lavoro dagli anni Ottanta in poi. Cambia che questi lavoratori recuperano un minimo di dignità. Un campo con assistenza sanitaria e legale continua, con bagni e mense. Con il trasporto garantito verso i campi di lavoro. Nessuno afferma che sia la panacea di tutti i mali, che hanno origini e nature diverse. Ma allora lo dicessero fino in fondo: “noi vogliamo che i migranti vivano nella merda, che vengano a noi come selvaggi in gabbia, in maniera tale da farci agitare la bandiera della lotta al sistema delle multinazionali”. E poi, in fondo, ci sarà sfuggito, ma non capiamo quale sia la proposta di questi compagni. Temiamo la risposta: “la rivoluzione”. E fintanto che ci attrezziamo, lasciamo i migranti a vivere sotto lamiere nelle estati a 50 gradi della campagna foggiana? Decidiamo per loro, per il solo gusto di inseguire le nostre battaglie da dotti, alla faccia del referente strumentale? Fortuna che, nei ghetti come altrove, non contiamo niente.

Laboratorio politico Jacob - Foggia